martedì 29 maggio 2012

le parole...


Carlo Levi ha scritto che le parole sono pietre. Le parole non dovrebbero essere pietre, ma catalizzatori, che avviano processi di trasformazione delle idee e delle azioni. Le parole dovrebbero contaminare e trasformare. Chiedono, per questo, di essere continuamente aggiornate e ridefinite, che ne siano individuate le trasformazioni, i cambiamenti, percepite le condizioni, prevista l'evoluzione.
Esiste un problema, con le parole, in due sensi. Il primo ci vede pieni di parole vuote. Ci sono espressioni di sempre, come "educazione moderna","cultura scolastica formativa", "maturità", che sopravvivono con una sorta di atmosfera connotativa che li circonda ma che sono ormai privi di significato, perchè i loro riferimenti si trovano in strutture dell'esperienza create in un altro contesto storico e sociale e non sono stati aggiornati. D'altro canto ci sono espressioni di oggi come "il sapere che serve al cittadino", "ciò che serve della matematica", "il valore del nuovo" "la scuola delle competenze", che sono ambigue, essendo definite dall'uso strumentale che chi le ha proposte ne vuole fare e non da parametri oggettivi discussi e condivisi. Sì, è vero: le parole mutano significato a causa dei mutamenti socioculturali. La "matematica del cittadino" oggi ha ben poco a che vedere con rigurgiti giacobini, perché è cambiata la dimensione stessa del cittadino. Che cosa si intende oggi per cittadino, come è cambiato il significato rispetto a tre secoli fa? Un tempo questo termine evocava una persona raffinata, cortese (e questo aggettivo ... come è distante da noi il suo significato etimologico), contrapposto a campagnolo. Che nuovo senso acquista oggi questa contrapposizione a causa delle mutate condizioni di vita nelle città e nella campagne e a causa delle organizzazioni profondamente diverse delle città e delle campagne? È davvero importante  fermarsi a rievocare l'etimologia delle parole che usiamo e studiarne la loro evoluzione, le profonde trasformazioni che hanno subito a causa dei cambiamenti economici, sociali e culturali. Amore per la parola, interesse per i suoi significati originari e per i cambiamenti di senso e significato. Almeno per quelle parole che usiamo più frequentemente, che vogliono caratterizzare le nostre idee ed azioni. E invece viviamo in un'epoca di corruzione della parola, dove il dialogo è stato sostituito dal messaggio promozionale che aggredisce, fin dai primi anni della vita, senza che si possa essere consapevoli di questa aggressione. Il linguaggio pubblicitario moltiplica sogni e bisogni e sottrae immaginazione e fantasia. Il fenomeno, drammatico per le conseguenze, lascia sul terreno parole svuotate di valori e significati che avevano un tempo e non ancora riempite di un significato opportuno e condiviso. Suoni che riempiono i nostri discorsi di nebbia. "Povero uomo, cercando dio nella nebbia", scriveva M. de Unamuno ... ma per i giovani oggi la situazione è ancora più drammatica: non ci stanno nella nebbia. Non ci vogliono stare, non ce li vogliono far stare. La nebbia è scomparsa. Così si può correre, sempre; si corre avendo l'impressione di cogliere di più, di vivere di più. Si va in superficie, senza sondare la profondità Non c'è più bisogno di cercare, di ricercare: ciò che si vede è. Le parole devono avere un significato chiaro: "slogan" è la parola d'ordine, poco pensiero, che lo slogan ti risparmia la fatica, poche parole, un  solo significato . Ma se accettiamo tutto questo non facciamo un buon servizio alla cultura e alla scienza. Non si aiutano le persone (gli studenti, per noi) ad acquisire capacità di giudizio critico se non li si lascia soli, almeno per un po', a fare esperienza della nebbia.
Il secondo problema è che non abbiamo parole per esprimere concetti nuovi che, tra noi insegnanti, si sono affermati attraverso l'esperienza, il confronto con gli studenti e le strutture scolastiche e sociali, l'interazione con le istituzioni. I concetti sono di tipo socio-morale, sostitutivi di quelli svuotati di senso, e di tipo professionale, relati strettamente tra loro. Non si può decidere del sapere che serve al cittadino, ad esempio, se non si concorda prima su che tipo di cittadino si vuole. Lo stato di grave degrado politico in cui versa l'Italia è il maggior responsabile di questo fenomeno, sta a noi metterci un rimedio, anche se costa.
Per lo meno ci costa solo tempo e impegno, prima i rimedi costavano sangue e disperazione. Vediamo di non arrivarci, a quel punto. David Grossman ha scritto che si diventa massa (in senso negativo di perdita di individualità) quando si rinuncia a pensare criticamente, a cercare  il significato delle proprie azioni, a riflettere consapevolmente su di esse. Riappropriamoci allora dei significati delle parole, aiutiamo chi vive nell'incantesimo del villaggio mediatico globale: lavoriamo affinché questa società sia di massa non perché le masse siano sempre più facilmente manipolabili ma perchè tutti, in massa,  possano imparare a pensare criticamente.  Che cosa si può fare per favorire, anche di poco, questo processo di acquisizione di una consapevolezza critica? 
La parola, le parole, passino a  Danilo Dolci*, che potrebbe esserci d'aiuto:

C'è chi educa
guidando gli altri come cavalli
passo per passo;
forse c'è chi si sente soddisfatto
quando è così guidato.

C'è chi educa senza
nascondere l'assurdo ch'è nel mondo,
aperto a ogni sviluppo ma tentando
di essere franco all'altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
                                     ciascuno cresce solo se sognato. 
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(*) Danilo Dolci, Il limone lunare, Laterza, 1970, p. 154

giovedì 24 maggio 2012

Parole: "senso"

Legata alla "molteplicità", come Parola vista dalla parte di un'insegnante di matematica, è la parola "senso". È una parola dai molteplici sensi, appunto, come potrebbe non esserlo? Dal "senso" come sensore biologico al "senso" come significato che il sensore attribuisce al percepito , da questo al "senso" come significato attribuito al percepito dal resto del cervello che elabora l'informazione del sensore, la strada è lunga e spesso sconnessa.

Luigi mi ha chiesto cosa intendo con innaturalità della matematica. Uno degli aspetti di questa innaturalità è la costruzione del senso ultimo di una situazione matematica, nella quale spesso il pensiero non può usare la solita prassi che usa nella vita comune, anzi, deve ribaltarla. La costruzione del "senso" come significato globale di una situazione è automatica e addirittura non evitabile per il pensiero umano, ma davanti alla matematica le prassi usuali devono essere spesso smontate e ricostruite con assetti diversi. L'argomento è complesso e non posso riassumerlo in uno o più post di un blog in pantofole, ma posso suggerire un mio articolo* riassuntivo, L'arco di pietre , che si può leggere cliccando sul titolo.
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(*) L. Catastini, L'arco di pietre,  Punti critici, n.8, 2003, pp. 25-52

mercoledì 23 maggio 2012

Parole: "molteplicità"

Ci siamo arrivati, alla "molteplicità"!
In Discorso sulla matematica (vedi aspettando la "molteplicità -1- ), Lolli ci descrive  la molteplicità di realtà matematiche esplorabili attraverso gli assiomi e i teoremi  di un unico modello formale matematico, ci mostra come «pensare ai modelli. alle interpretazioni di una teoria in un'altra e al linguaggio senza significati che le rende possibili, comporta per un matematico la considerazione della molteplicità. Essa si presenta come pluralità di interpretazioni, e scaturisce inevitabilmente dall'uso del linguaggio beckettiano».  

Con sensibilità e finezza Lolli passa dal rigore formale della teoria alla liricità dell'emozione del matematico di fronte alle possibilità di «quello che non è solo uno strumento nuovo di pensiero, ma una nuova filosofia»,  citando Enriques:« Pare quasi che agli occhi mortali, con cui ci è dato esaminare una figura sotto un certo rapporto, si aggiungano mille occhi spirituali per completarne tante diverse trasfigurazioni; mentre l'unità dell'oggetto splende alla ragione così arricchita, che ci fa passare con semplicità dall'una all'altra forma»

A me, insegnante di matematica,  la molteplicità legata alla materia si mostra con più facce, più complessa: da una parte comporta l'educare alla riduzione delle Parole in segni con cui costruire schemi astratti nei quali si possono compiere operazioni e dimostrare teoremi, dall'altra chiede l'educare alla sensibilità rispetto ai significati delle parole, alla costruzione sempre più fine di Parole che permettano di comunicare efficacemente la complessità dell'esperienza e della conoscenza umana.  "Razionale" e "Irrazionale" non sono solo segni, sono significati necessari alla costruzione del sentiero matematico, per un adolescente. Se l'insegnamento è efficace, si creerà la  consapevolezza, più o meno esplicita,  della diversità delle regole che il nostro pensiero deve applicare per costruire immagini e parole adatte alla riduzione, rispetto a quelle  usate nella complessità della vita  "naturale".  Solo così i due mondi possono interagire in maniera ricca e produttiva con la crescita culturale ed emotiva dello studente, giustificandosi a vicenda. 

Calvino, nelle Lezioni Americane,  esprime bene questa biforcazione del pensiero in due direzioni, da una parte la riduzione delle parole della complessità vissuta in modelli e schemi formali, dall'altra la sua moltiplicazione per render conto con la maggior precisione possibile dell'aspetto sensibile delle cose:
«In realtà sempre la mia scrittura si è trovata di fronte due strade divergenti che corrispondono a due diversi tipi di conoscenza: una che si muove nello spazio mentale d'una razionalità scorporata, dove si possono tracciare linee che congiungono punti, proiezioni, forme astratte, vettori di forze; l'altra che si muove in uno spazio gremito d'oggetti e cerca di creare un equivalente verbale di quello spazio riempiendo la pagina di parole, con uno sforzo di adeguamento minuzioso dello scritto al non scritto, alla totalità del dicibile e del non dicibile. Sono due diverse pulsioni verso l'esattezza che non arriveranno mai alla soddisfazione assoluta: l'una perché le lingue naturali dicono sempre qualcosa in più rispetto ai linguaggi formalizzati, comportano sempre una certa quantità di rumore che disturba l'essenzialità dell'informazione; l'altra perché nel render conto della densità e continuità del mondo che coi circonda il linguaggio si rivela lacunoso, frammentario, dice sempre qualcosa in meno rispetto alla totalità dell'esperibile»


"Molteplicità" dunque come molteplici sono gli effetti dello studio della matematica sul pensiero e sull'immaginazione: amplificazione di significati, come nel linguaggio naturale e nelle sue costruzioni,  costruzione di aspetti innaturali nel ragionamento, faticosa palestra per il cervello,  che permetteranno di arrivare alla  cancellazione di significato nella costruzione di modelli formali come nella matematica.
"Molteplicità" infine come le tante forme di ricchezza intellettuale che una scuola sana e libera e intelligente potrebbe offrire ai propri studenti, senza bisogno di avere crocette tra le scatole.

lunedì 21 maggio 2012

aspettando la "molteplicità" -4- parole buone e parole fasulle

Una volta l'insegnamento e la valutazione erano armonicamente connessi: l'attività dell'insegnante in classe prevedeva momenti di verifica della crescita culturale dello studente attraverso interazioni diverse quali l'interrogazione orale, il compito scritto, l'interazione in classe, la discussione in consiglio di classe con i colleghi di altre materie, perché si considerava "globale" il suo profilo culturale. Il suo cammino formativo avveniva attraverso modalità complesse che prevedevano non solo una acquisizione di  nozioni e della capacità di applicarle, ma anche (e soprattutto) una educazione alla complessità cognitiva e morale di una società basata su alte costruzioni del sapere. Un esempio di quanto voglio dire si trova nelle parole di Pontiggia.  Nel 2008 su  radio3 hanno replicato una serie di appuntamenti con Pontiggia, andati in onda poco prima della sua morte. In queste sue chiacchierate Pontiggia esprimeva benissimo e continuamente il senso dello studio della lingua come strumento di conoscenza di se stessi e degli altri, conoscenza che altrimenti potrebbe anche non svilupparsi. Non ho spazio qui per di commentare l’importanza di questa capacità in un individuo, dico solo che se la scuola contribuisce a farla crescere, allora l’istruzione diventa anche momento altamente educativo.

Chi vuole dare consistenza speculativa ed espressiva al proprio pensiero, dice Pontiggia, è bene che si confronti col collaudo molto duro della lingua comune, nella quale le parole hanno subito un vaglio millenario. Nelle parole si deposita un sapere distillato dal tempo e uno dei momenti conoscitivi più significativi e gradevoli è quello dello studio della storia delle parole, nei millenni, che passa anche attraverso lo studio della letteratura.. È una miniera di significati sociali e personali e portano a scoperte straordinarie sulla genesi di certe idee anche solo con ciò che è implicito nelle radici delle parole usate.
La lingua comune veicola meglio l’originalità di un pensiero. Pontiggia pensa che i grandi scienziati, Planck, Eisemberg, Einstein per esempio, che parlavano in maniera semplice e piana delle loro teorie, non volevano fare mera divulgazione ma avevano ambizione più alte: quello di sottoporre il loro mondo speculativo al confronto con la lingua comune in modo che le idee nuove trovassero agganci concettuali nel lettore in una lingua condivisa e non in uno sterile linguaggio tecnico. Usare la lingua “comune” per esprimere nuove idee, scientifiche in questo caso, chiede un grande sforzo espressivo e riflessivo, non è una riduzione ma un aumento di complessità nel lavoro dell’autore, che non lo fa per allargare il pubblico o per semplificare i problemi. Galilei addirittura, scrivendo anche in volgare, ha scelto la forma del dialogo, narrativo-teatrale per comunicare meglio le proprie idee.
Collaudare le proprie teorie al vaglio della lingua comune e non in quella specialistica significa scoprire cosa è implicito nelle radici delle parole e cosa è cambiato nel tempo. Tutto questo chiede uno sforzo introspettivo notevole perché la lingua comune costituisce un ostacolo molto forte alla fine costruzione di significati, ma, se conosciuta a fondo, diventa uno strumento insostituibile di veicolazione di idee profonde.

J. Renard, riferendosi alla comunicazione di stati interiori diceva: ” c’è una sola parola e il buon scrittore la conosce”
Renard intendeva dire che dal punto di vista espressivo non esistono sinonimi in una lingua, ossia non esistono parole che possano considerarsi identiche o equivalenti.
In che senso non esistono parole sinonimiche? Pensiamo ed esempio a un sinonimo di “casa”: potrebbe essere abitazione, edificio, dimora, sede... è evidente però che "casa" ha una connotazione fortemente familiare, "abitazione" sottolinea più l’abitare, "edificio" è più tecnico, "dimora" ha connotazioni intime e affettive.
Tra faccia e viso c’è una notevole differenza perché "viso" è una parola colta e mantiene il distacco mentre "faccia" invece è un termine carnalmente sincero e immediato . Difficile che qualcuno ti dica "che brutto viso hai stamani" oppure, "viso di merda", ma piuttosto "che brutta faccia hai!" ecc... ….
Ancora: viso e volto differiscono di una vocale ma evocano sensazioni e immagini distanti tra loro: la "o" di volto è più rotonda e carnale della "i" di viso, si evoca il volto dell'amante, "viso" invece va meglio per una Beatrice.
La ricerca poetica incide su questi significati, che influiscono sulla prosa, e viceversa la prosa, nel tempo, contamina la poesia.

Lo studio della lingua e della letteratura ha dunque anche questo particolare obiettivo: creare nell'adolescente il maggior numero di significati legati al suo crescere come una persona emotivamente complessa e fornire anche le parole giuste per esprimerli. Lo studente che non è sensibile alle differenze di sfumatura dei sinonimi o che non vede nessuna differenza tra "andare" e "recarsi" perde una parte importante dell'istruzione scolastica, forse la più importante. Dice Pontiggia, che "si va" al gabinetto e "ci si reca" dal preside, e che questa differenza insegna qualcosa che può aiutare a comunicare pensieri personali o speculativi.
Tale sensibilità non è necessariamente cosciente e neanche la si deve saper necessariamente esercitare in maniera creativa e originale, ma se si sviluppa rende l'individuo capace di guardare agli altri in modo profondo e di crescere nella propria complessità interiore attraverso esperienze comunicabili nella loro qualità umana più intima.

lI gergo giovanile, quello estraneo alla scuola, è inventivo per propria natura, è vero, ed anche fortemente condiviso, però questo linguaggio gergale serve a difendersi dall’esperienza, non ad approfondirla. Per esempio, nell’esperienza erotica il gergo è un linguaggio liquidatorio che uniforma le esperienze, le quantifica: ho fatto questo, ho fatto quello… neutralizza l’esperienza emotiva e fa diventare tutto uguale. In questo eccellono i maschi. Tutto questo pregiudica loro l’accesso all’esperienza che hanno avuto e in alcuni di loro pregiudica non solo la conoscenza del proprio animo ma anche lo sviluppo di empatia e riconoscimento di quello altrui.
Il linguaggio può essere molto violento. Si chiede oggi al personaggio di turno "come vive la gestione della sua vita sessuale" e non si tien conto che una persona nella vita di solito non ha una "vita sessuale" ma una fidanzata, un'amante, un moroso, una moglie, un marito e che di solito non è con la categoria della "gestione" che vive questi affetti.. Che frattura tra la realtà e le parole che vorrebbero raccontarla!

La povertà o la mancanza di congruità di linguaggio (direi meglio: di cultura in senso lato, di quegli aspetti della cultura che qui sto cercando di far emergere ) si evidenzia in questo episodio giornalistico: un personaggio importante che a un certo punto delle sua brillante e riuscita carriera ha scelto di seguire la vocazione di missionario si è sentito rivolgere questa domanda: "qual è la molla che ha fatto scattare il meccanismo della conversione?"
Sembrava si chiedesse il resoconto della conduzione manageriale di un'azienda e non di movimenti intimi e interiori, sotterranei, che alla fine emergono lentamente in superficie e si diffondono, dopo essersi sviluppati a lungo nel tempo e nel profondo dell'anima. Il linguaggio del giornalista allontanava il lettore dalla comprensione, liquidava l’esperienza rendendola vuoto stereotipo, non la avvicinava alla sensibilità di chi ne attendeva il racconto.

L’assimilazione dell’esperienza passa quindi anche attraverso l’appropriazione di un linguaggio adeguato, appropriazione che non si può effettuare e valutare facendo studiare a mente elenchi di parole "appropriate" e facendo mettere una crocetta sulla parole giusta. Qualunque semplificazione della complessità uccide l'effetto finale atteso.

domenica 20 maggio 2012

aspettando la "molteplicità" -3- punto esclamativo!

Oggi è  il giorno dopo. L'attentato a Brindisi chiede, tra le altre cose, ulteriori  sforzi a tutti noi che dedichiamo tempo e vita ai valori della cultura e dell'istruzione. 
Le note di ieri giravano attorno al rapporto tra pensiero e matematica, tra il pensiero di chi la matematica la pratica fino a esplorarne le espressioni più alte e recenti e il pensiero di chi, in una scuola qualunque, come quella di Brindisi, la studia perché qualcuno ha deciso che è una materia da studiare. E, di conseguenza, cosa c'è nel pensiero di chi decide i contenuti dell'insegnamento e le sue finalità. La matematica è una delle due materie oggetto di "testificazione Invalsi". L'altra è l'italiano. Le due materie fondamentali nella conoscenza. Peccato - e questa è la mia opinione - che le crocette ne ammazzino questa forte funzione di "fondamento". 
Riporterò nelle prossime note alcuni post del mio vecchio blog Splinder che riguardano l'insegnamento dell'italiano, per poterli richiamare quando finalmente affronterò la "molteplicità", per me legata al "fondamento".

I post sono nati come commento a un quesito posto nel 2008 in un test di maturità inglese, riportato dai giornali italiani. Riguardava il tema di inglese alla maturità in una scuola del Regno: «Descrivi la stanza dove sei seduto». Svolgimento: «Fuck off»
L’esaminatore, che è un importante professore britannico, non ha battuto ciglio, non si è offeso e non ha dato zero al sedicenne. Il voto è stato 2 punti su 27: uno guadagnato perchè non c’erano errori di ortografia o di sintassi nel tema e il secondo perchè la frase esprime un pensiero compiuto.
Il professor Peter Buckroyd ha spiegato nelle sue note al componimento che per guadagnare un punteggio minimo gli studenti debbono dimostrare di saper esporre «qualche semplice sequenza di idee» e saper «mettere alcune parole in ordine». Dunque «vai a fare...» ricade nella categoria valutabile con una certa positività. Il professore ha aggiunto che avrebbe aggiunto un voto in più se il ragazzo avesse concluso la frase con un punto esclamativo «Fuck off!», certamente adatto a un’ingiuria brusca.
La storia è stata raccontata dal Times, che si è scandalizzato, perchè il GCSE, General Certificate of Secondary Education, è un rito del sistema scolastico britannico, viene affrontato ogni anno da circa 780 mila sedicenni ed è decisivo per le iscrizioni alle più o meno prestigiose università. «Scrivete fuck off nel tema e prenderete il 7,5% del voto massimo. Aggiungete un punto esclamativo e il voto salirà all’11%», ha scritto il giornale con logica aritmetica.

Mr Buckroyd, che è chief examiner, responsabile anche per la preparazione dei colleghi membri di commissione d’esame, ha tenuto il punto. «Meglio un insulto che lasciare il foglio in bianco come fanno molti nostri ragazzi. Sarebbe stato sbagliato dare zero, perché quel fuck off ha mostrato una istruzione di base». L’organismo di controllo degli esami AQA (Assessment and Qualifications Alliance) ora dice che è il caso di rivedere le linee guida per la valutazione della maturità. Ma concorda con il professore che il «caso unico di espressione del candidato andava comunque considerato».

Ecco questa è la reiterata, scandalizzata cronaca dei giornalisti che sottolineano come sia stato o non sia stato dato un punteggio diverso da zero a un tema siffatto.

Io invece sono rimasta colpita dal titolo del tema: "descrivi la stanza dove sei seduto". Neanche all’esame di quinta elementare sarebbe venuto in mente di darlo, da noi, e da loro ci si gioca l'ammissione all'università..

sabato 19 maggio 2012

aspettando la "molteplicità" -2- l'intruso

...insomma, per riprendere il discorso cominciato nel post -1-, ho come l'impressione che il pensiero stia alla matematica come l'osservatore sta al fenomeno fisico osservato: entrambi sono intrusi che con la loro presenza modificano l'oggetto su cui si applicano.
Pensare la matematica vuol dire inquinarla?

aspettando la "molteplicità" -1-

Il post annunciato, sulla "molteplicità" sarà preceduto da una serie di note necessarie. Potranno essere pensieri staccati tra loro, magari anche dentro una stessa nota, aforismi a puntate, ma con una meta annunciata. Queste brevi note, numerate, servono a dare a me il piacere di scrivere la mattina presto, quando la casa ancora dorme e il sole comincia a dare luce alla cima dei colli intorno, e di poter interrompere quando la realtà mi costringe a interrompere. E di stare mentalmente in compagnia di Al, di Mike, di Lucia, di Paolo. di Beppe, di Angela, di Luigi. Scrivo per me ma parlo a loro. Mi aiuta a trovare un senso*.

La "molteplicità" è trattata da Calvino nelle Lezioni americane, e ripresa da un bel libro** recente, che ne parla nell'ultimo capitolo come qualità della matematica. Le considerazioni dell'autore vogliono divulgare, riuscendoci,  aspetti insoliti che uniscono argomenti matematici nella storia della disciplina. Il capitolo inizia così:«
La cura del linguaggio, la ricerca e lo sfruttamento delle possibilità che emergono da una considerazione oggettivale del linguaggio introdotta da Hilbert, sono armi potenti della matematica moderna. Linguaggi e calcoli, sinonimo di sistemi formali sono concetti matematici e sono «pedine» della matematica, da Hilbert in poi; inutilmente ha cercato di opporvisi un filosofo come Wittgenstein». E cita il capitolo Non esiste una metamatematica della Grammatica filosofica di Wittgenstein. Avverto che non ho le competenze per discutere di problemi logici, ma la presenza Wittgenstein mi permette di indicare aspetti per me significativi e importanti che riguardano la matematica. Saranno gradite segnalazioni e correzioni di errori macroscopici.

Allora: cosa non è (o è)  una «pedina” della matematica? Wittg. dice che  non lo è la Parola "calcolo":«Ho detto «Calcolo non è un concetto matematico». Questo vuol dire che la parola «calcolo» non è una pedina della matematica». Che differenza c’è tra “concetto matematico” e la parola che lo denomina? Solo la  seconda può essere una  pedina della matematica? ma se è solo un segno, perché allora farla dipendere da un concetto? E ancora, se il formalismo tratta solo segni e la loro manipolazione secondo regole fissate, perché Hilbert, nel suo Grundlagen, inizia cosi: “Noi possiamo suddividere gli assiomi in cinque gruppi; ciascuno dei gruppi esprime certi fatti fondamentali omogenei alla nostra intuizione***.” , proseguendo: "Indicheremo questi gruppi di assiomi come Assiomi di collegamento, di ordinamento, di congruenza,  delle parallele  ecc… "? Perchè  portare in ballo l’intuizione e fare riferimento a concetti come "il collegare" nel raggruppare per comodità gli assiomi in gruppi? E perchè raggrupparli?


Tornando al capitolo citato, Non esiste una metamatematica
Wittgenstein, parlando del calcolo e della fondazione dell’aritmetica, esclama: «Insegnacela: allora l’avrai fondata!» (il punto esclamativo è mio).

Tutto questo per sottolineare, da parte mia,  che un conto è essere matematici e un conto è essere insegnanti, un conto è “fare” matematica, un conto è apprenderla , un conto è studiare la matematica come strumento di alte espressioni professionali e un conto è studiarla come strumento culturale formativo. E ancora, un conto è studiarla per se stessa e e un conto è applicarla. 

______
(*) nel senso di percorso verso un obiettivo che si precisa solo con il cammino.
(**)G. Lolli, Discorso sulla Matematica
, Bollati Boringhieri, 2011
(***) il bold è mio.

mercoledì 16 maggio 2012

Risposta a Al sulla "narrazione"

 Al, nella sua risposta al post "narrazione", specifica: «Cara Laura, non è la narrazione che ci rende insopportabile la matematica, è un tipo di narrazione particolare» e sottolinea con le parole di Calvino l'importanza della letteralità del racconto, contro una narrazione che esca dai confini che l'autore costruisce con le proprie parole:«Conclude Calvino: "so che ogni interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca: coi miti non bisogna avere fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi a meditare su ogni dettaglio, ragionarci sopra senza uscire dal loro linguaggio di immagini. La lezione che possiamo trarre da un mito sta nella letteralità del racconto, non in ciò che vi aggiungiamo noi dal di fuori" 
Le fiabe - aggiunge Al - sembra che ci piacciano per le storie che raccontano per il loro contenuto, ma la riflessione di Calvino ci permette di riconoscere il perché del particolare esclusivo piacere e dell'impressione duratura che ci lasciano. Una persona non sa cosa è la matematica se non ha imparato a fare uno di quei discorsi formali, dove si seguono i rapporti di conseguenza determinati dagli oggetti magici (parole calde?), e non c'è nulla di superfluo, in particolare nessuna interpretazione dei simboli, nessun loro significato inteso (neanche di superficie). Non perché questa sia la parte più importante dell'attività matematica, ma perché è quella che meglio ne descrive la natura.»

Sono d'accordo con Al, la forma diventa sostanza in matematica. Imparare a gestire queste due cose insieme rappresenta uno degli obiettivi alti del mestiere del matematico e ne rappresenta l'essenza.


Sono d'accordo anche con Calvino: alcune letture sono coinvolgenti per il mondo nel quale ti avvolgono, non per i mondi esterni che ti indica. Chi ha tirato su un bambino lo sa: guai cambiare anche un solo un piccolo particolare delle storie che raccontiamo loro, vanno dette e ridette, sempre con le stesse parole, sempre con lo stesso loro piacere a ripercorrerle, a ripassarne gli stessi sentieri. Ogni parola in più, ogni termine tolto o cambiato, proietta altrove, guasta il mito.


Ma per riuscire a far capire cosa intendo quando affermo che "la matematica è difficile perchè non ha narrazione",  bisogna proprio che spieghi in maniera più approfondita cos'è per me il fenomeno della "narrazione".  


Intendo con  "narrazione" il modo in cui il nostro cervello elabora le informazioni che gli arrivano attraverso la parola: non si limita a una interpretazione statica, letterale, dei termini ma ne costruisce un senso aggiunto usando dinamicamente tutte le informazioni che possiede, secondo le regole create implicitamente dalla conversazione. Costruito un quadro sensato (ecco la "narrazione") il pensiero è pronto a muoversi ancora, se arrivano altre informazioni.  Supponiamo per esempio che A e B stiano parlando di un amico comune C, che ora lavora in banca. A chiede come vada il nuovo lavoro di C e B risponde:«Oh, piuttosto bene, mi pare, i colleghi gli piacciono e non è ancora stato arrestato.»  L’informazione contenuta dalla risposta di B consta di due soli elementi: a C piacciono i nuovi colleghi e non è ancora stato arrestato. Formalmente ciò non permette alcuna inferenza. Sempre formalmente “e non è ancora stato arrestato”può essere aggiunto alla fine di qualunque proposizione, senza che ciò permetta alcuna inferenza. Voi che leggete però vi fate una immediata e personale  narrazione sulla situazione, arrivando a conclusioni ben precise. Ecco un altro esempio di "narrazione": nelle frasi seguenti, diverse solo per le aggiunte attraverso la congiunzione "e",  si aprono quadri molto diversi tra loro causate dalle (in linguaggio tecnico) implicature conversazionali

- Maria è tornata da scuola
- Maria è tornata da scuola e non è ancora stato arrestata
- Il neonato è stato allattato
- Il neonato è stato allattato e non è ancora in prigione
- Maria è tornata da scuola e il neonato è stato allattato e non è ancora in prigione.

Per ogni frase la mente corre e disegna un quadro specifico, per ogni frase si costruisce una narrazione efficace.

Questo processo inconsapevole, creato dalle regole del linguaggio, è la molla del pensiero, vivacizza emotivamente la persona che pensa, la stimola, la fa sentire intellettualmente viva.
La matematica, nel processo di apprendimento, fa l'effetto opposto. La mancanza di movimento istintivo, del crearsi di una spontanea "narrazione", dà allo studente la sensazione di avere il pensiero paralizzato, imprigionato, crea angoscia. Una volta uno studente ha sbattuto la penna sul banco, si è preso la testa tra le mani e mi ha detto, tra l'arrabbiato e il preoccupato: "Mi sta venendo un attacco di claustrofobia". Ho capito subito cosa voleva dire e come si sentiva.

La matematica è una lunga e faticosa educazione del linguaggio, dell'immaginazione, dell'emozione, portati attraverso sentieri impervi e innaturali, che conducono  l'uomo lontano dalla semplificazione negativa e spesso crudele che un uso barbaro delle parole può produrre.
Ecco perché è preziosa, ecco perché  è affascinante, ecco perché, da insegnante, la amo. 

Tornata calma mi scuso per l'enfasi e annuncio che, per continuare questi discorsi  insieme a Calvino, la Parola del prossimo post sarà "molteplicità".

martedì 15 maggio 2012

Matematica in bianco e nero?

La superficie di Al


"... la mia idea di superficie è poco matematica. Una superficie è qualcosa che ci sostiene, su cui ci muoviamo, ma mossa, ondulata, dolce, le colline del mio paese. Se l'occhio non è a fuoco, sembra liscia, solo colori. Sulla superficie ci sono sentieri."

Mi sono tolta gli occhiali per sfuocare l'immagine ed è apparsa una superficie geometrica a colori, un rettangolo sorprendentemente caldo. Ho sempre pensato le mie  immagini geometriche in  bianco e nero, ho vissuto una intera vita di immaginazione matematica come in un vecchio cinema muto, me ne rendo conto solo ora!

Ma qualcosa in me, pur colorandosi,  resta immutato: l'idea di superficie come possibilità.

lunedì 14 maggio 2012

Intermezzo: come vedevo la superficie geometrica

Ho chiesto*: come te la immagini una superficie geometrica? cosa si affaccia al tuo pensiero quando si presenta quella parola? A me, fino agli anni '90 - era il tempo che ancora si scriveva con la penna - si affacciava un foglio di quaderno e lo scrocchiare del foglio secondo il solco lasciato dal pennino.

Mi è sempre piaciuto quel rumore, a scuola pigiavo eccessivamente con la biro per ottenere fogli croccanti, e sfogliarli era bello, mi dava come un senso di lavoro accumulato, di sapere imprigionato. Ma se dovevo fare un disegno per un problema geometrico il segno diventava improvvisamente leggero. L'immaterialità dell'ente mi si imponeva, ne ero cosciente, il tutto doveva essere leggero e preciso. La matita  poi veniva ripassata, per farli più scuri, ma sempre senza lasciare solchi,  su quei segmenti delle forme già disegnate  che volevo far diventare lati di nuove forme che pensavo servissero per la risoluzione. Non avevo idea che esistessero le leggi della  Gestalt ma già ne usavo i principi. Mi divertiva scurire quel triangolo nascosto dentro un trapezio che mi permetteva di applicare il teorema di Pitagora  e di risolvere l'esercizio. Mi rendo conto ora che la superficie è sempre rimasta in secondo piano, nel mio pensiero. È sempre stata, per me scolara,
solo sostegno di forme, intese come insieme chiuso di linee.
Inoltre, senza esserne cosciente, vedevo la superficie nello spazio, anche se allo spazio non pensavo mai se non quando affrontavo problemi di geometria solida. La vedevo nello spazio, l'ho capito anni dopo, perchè lo spazio mi serviva per scriverci sopra: adoperavo il compasso verticale per disegnare un cerchio, guardavo dall'alto, china sul quaderno, le figure già tracciate mentre ne cercavo gestalt più produttive e nuove linee da aggiungere. Se fossi stato  un abitante di Flatlandia  avrei dovuto inevitabilmente usare il compasso del giardiniere (una corda con una estremità fissa, che ruota nel piano) e la superficie, nella mia mente, sarebbe rimasta avvolta nelle sue due sole dimensioni. (Le figure chiuse, poi,  sarebbero state inaccessibili alla immediata e completa conoscenza visiva perchè i lati posti di fronte agli occhi avrebbero nascosto quelli dietro di loro. Che geometria avrebbero sviluppato a Flatlandia?...)

Oggi la vedo, la superficie,  in un modo ancora diverso, ma ci arriveremo alla fine del percorso di questi post sulle Parole, è quella la meta. Dove troveremo ad aspettarci Archimede. Anche lui rigorosamente in pantofole, s'intende.
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(*) vedi post precedente 

domenica 13 maggio 2012

Parole: "narrazione"

La "narrazione" è ciò che si mette in movimento nella nostra testa quando si sentono o si leggono delle Parole o quando ce le diciamo da soli. Ho usato la maiuscola, Parole, perchè la narrazione è un racconto che prende il volo soprattutto con certe parole, parole calde, insomma, Parole.

Un bell'esempio di narrazione ci è dato da Troisi in questo video * nel quale l'attore napoletano mostra qual è** un grosso problema all'interno dei problemi di matematica: le parole calde. Il testo del problema contiene uova schiacciate, sacchi pesanti di farina, mercato, vendita, soldi, ricavo, tasche bucate da cui si perdono monete. La domanda matematica viene immediatamente scavalcata dalle emozioni suscitate dalla narrazione messa in moto dalle Parole in questione e Troisi si scalda e si altera pensando alla stupidaggine di non proteggere le uova dai sacchi di farina, mentre si sistemano sul carro che andrà al mercato.  
È la nostra intelligenza, la narrazione, è la nostra ricchezza, ciò che ci fa volare il pensiero, ed è anche a volte ciò che ci rende insopportabile la matematica. La matematica ammette poca narrazione, almeno mentre si impara, e quella poca ammessa è  sottoposta a rigorosa  educazione. 

 Ci tornerò sopra, per ora vi do solo un esempio. Eccolo: siamo in geometria, la stiamo imparando rivivendo la sua costruzione dei primi enti e le loro definizioni. C'è l'esigenza di definire bene cosa vuol dire, in geometria, "continuo", "contatto", "consecutivo". Non sono parole calde (forse solo "contatto", che  mette in moto narrazioni sentimentali subito ammazzate dal gelo del contesto) ma importanti: quando due enti geometrici sono in contatto? il punto estremo di un segmento è consecutivo ad esso o in contatto con lui? l'essere consecutivi basta a stabilire una continuità? Scommetterei tutto quello che ho che le poche parole che ho scritto non vi hanno mosso nessuna narrazione impetuosa, dentro, e che se la testa vi si muove lo fa con fatica. Che differenza con quello che succede quando si parla di "felicità", eh? 
Aristotele ha dato queste definizioni: «continuo è ciò i cui estremi sono uno», «contatto è ciò i cui estremi sono insieme», «consecutivo è ciò in cui non esiste come intermedio nulla che abbia la stessa natura». Sembra tutto incomprensibile, tranne forse la definizione di consecutivo, ma se si sa cosa significano per Aristotele le parole  "essere uno", qualcosa nel pensiero si muove, e se si conoscono le definizioni di "punto", "segmento", "superficie", qualche altro timido passo avanti, con fatica, forse lo si si fa. 

Non ho intenzione di coinvolgervi tecnicamente in questioni matematiche - solo su richiesta diretta forse rispondo - quindi niente cose tecniche, ma vi farò domande, mi interessano molto le risposte naturali, non da tecnico. La prima è questa : come ve la immaginate la superficie geometrica, come la definireste? Accetto anche la risposta di Al, se si impegna a non essere tecnico (difficile, Al, lo so, una volta persa l'ingenuità non è facile ritrovarla).

Ho voglia di mostrare come la matematica sia fredda solo per necessità, e come questa necessità alla fine divenga una virtù impagabile. E anche come, una volta imparata, la sua pratica possa diventare una rovente narrazione coinvolgente.
È come suonare il pianoforte: mentre impari, l'emozione non deve entrare nell'esecuzione delle scale, ti devi sorbire tempi infiniti nei quali le tue dita trovano prima la posizione giusta, poi i singoli tasti giusti, poi le configurazioni giuste di tasti, poi l'indipendenza dei movimenti tra mano sinistra e mano destra, poi l'automaticità dell'insieme, e infine, quando sai fare tutto ciò (hai cominciato a sette anni e te ne ritrovi addosso quindici) puoi abbandonarti all'emozione dell'esecuzione, all'abbandono emotivo, alla genialità della narrazione e della sua trasmissione.
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(*) parole chiave: scusate il ritardo, troisi, problema del contadino
(**) mi hanno insegnato a scrivere "qual'è", ho letto e usato questa forma per buona parte della vita, da qualche anno c'è scandalo se la si usa e io mi adeguo - le motivazioni sono giuste - ma ogni volta che scrivo qual è lo sento sbagliato. "Sbagliato" è una Parola.

sabato 12 maggio 2012

Parole: "felicità"

Ieri Al ha portato in ballo la Parola "felicità". Non so se ne fosse consapevole, ma questa Parola va direttamente al cuore del problema delle Parole. Pensate a un mondo di animali vocianti ma non parlanti, magari animali di gruppo come i cani e le scimmie, e immaginatevi di dover definire cosa è la felicità per loro. Il compito è abbastanza semplice, chi ha un cane sa come farlo felice. La felicità, per animali del genere, è legata al soddisfacimento dei bisogni primari e quindi alla qualità dell'ambiente che li ospita. Negli animali di gruppo la felicità è anche funzione del temperamento di base, quello creato dal dna, dell'animale e del giusto posto sociale dell'animale stesso: esistono temperamenti dominanti e temperamenti subordinati, e il benessere dell'animale sta nel vivere il proprio ruolo armonicamente con il proprio status biologico. La felicità, nel  gruppo di animali senza parola,  assume carattere quasi oggettivo.
Ma pensate ora a una coppia di supercervelli - rispetto a quello di un cane - vaganti in un paradiso terrestre apparecchiato apposta per loro, e immaginateli parlanti. Che succede inevitabilmente? Uno di loro si annoia - un supercervello ha bisogno di esercitare i propri neuroni -  e disobbedisce al capo mangiando la mela della conoscenza. Quel tipo di mela non esiste senza la Parola. Immaginatevi Adamo ed Eva che litigano: non solo ringhi e risse ma anche argomentazioni, e può vincere il più abile, non il più forte. Si sono giocati la felicità oggettiva, in questo modo, e hanno complicato la loro vita.
E soprattutto hanno creato una domanda; quale scuola per i miei figli? (salto troppo brusco. forse, ma Al e gli altri due lettori che mi seguono sono abbastanza intelligenti per capire)
Ci arriveremo, alla Parola "scuola", ma non subito. 
Non ho ancora risposto in modo completo al commento di Al, per dirne una. Ecco Al, le personalità sfigate o creative hanno  spesso una base biologica dominante  - io per esempio lo sono, molto - ma in loro la dominanza non si esprime nella sopraffazione dell'altro ma nella resistenza all'ipnotismo del dominante non creativo di turno. Poco ipnotizzabile, poco omologabile, poco assogettabile, gente che non fa tendenza. Ma che crea Parole diverse.
Perchè a volte il creativo non è felice? perchè a volte non trova con chi  scambiare pensieri e impressioni, chi oggettivizzi le sue Parole e la sua esistenza,  perchè anche lui ha bisogno di un gruppo amico, e allora si sente solo e vive la sua  diversità con disagio.
Ecco perchè la scuola è importante. (quest'ultima frase me la potevo risparmiare. ma c'entra, fidatevi)

venerdì 11 maggio 2012

Parole: "sfigato". Dedicato a un amico Logico

Ho voglia di scrivere a lungo sulla manomissione delle parole, attuata di questi tempi scientificamente.  
Berlinguer dice: «La forte espansione scolastica non è stata accompagnata, come in altri pezzi d’Europa, dal passaggio da un sistema fondato sulla conoscenza a uno centrato sull’apprendimento." (corriere.it 8 maggio)
Questa frase non vuol dire nulla. È solo un modo di far accettare cambiamenti che servono a chi vuol cambiare le forme sociali e culturali di una comunità, di un paese, di una nazione. Tornerò sul tema della scuola, ma ora vi presento la riflessione sulla prima parola che ho scelto: "sfigato" o "perdente" , pubblicando lo status fb di Federico Mantile, che ho letto stamani. 
Voglio usare le sue parole  per creare un giusto alone italiano  attorno al termine "sfigato", che cancelli quello imposto dalla visione americana della vita.  Che "sfigato" definisca un insieme di  persone del genere che leggerete qui sotto, e che sono la forza morale, creativa e libera di un paese! I "vincenti", che ne sono di norma l'espressione contraria, sono soggetti che rincorrono il potere attraverso la disuguaglianza sociale, la prepotenza, lo sfruttamento, l'aridità personale e morale.
Io sono sfigata. Lo rivendico e me ne vanto.

{status di federico mantile}

Nel corso degli anni ho individuato [...] una struttura di personalità forte e dotata di sensibilità, creatività, empatia e intuizione, che ho chiamato personalità creativa.

Le persone che possiedono una personalità creativa sono capaci di amare, di sognare, di sperimentare, di giocare, di cambiare, di raggiungere i propri obiettivi e di formularne di nuovi. Sono uomini e donne emotivamente sani. Gente che non perde mai il contatto con la propria anima, cioè con quella saggezza profonda e profondamente ingenua, capace di sentire vibrare la bellezza e l’impalpabile immensità della vita in ogni cosa. Le personalità creative conoscono istintivamente la realtà interiore che ispira le nostre scelte (sia nel mondo immateriale dei sentimenti sia in quello materiale della fisicità). Sono persone che, nonostante il bombardamento di messaggi volti a deridere la presunta illusorietà di tutto ciò che i cinque sensi non riescono a padroneggiare considerandolo soggettivo, non perdono mai la consapevolezza che proprio quella soggettività è indispensabile, per vivere con pienezza. Le personalità di questo tipo sono inscindibilmente connesse alla propria anima e in contatto con la sua verità. Queste persone coltivano la certezza che la vita abbia un significato diverso per ciascuno e rispettano ogni essere vivente, sperimentando così una grande ricchezza di possibilità. E’ gente che non ama la competizione, la sopraffazione e lo sfruttamento, perché scorge un pezzetto di sé in ogni cosa che esiste. Gente che non riesce a sentirsi bene in mezzo alla sofferenza. Gente incapace di costruire la propria fortuna sulla disgrazia di altri. Gente che nella nostra società non va di moda. Gente disposta a rinunciare, per condividere. Gente impopolare. Derisa dalla legge del più forte. Beffata dalla competizione. Gente capace di mantenere salda la consapevolezza che la vita non è fatta soltanto di materialità. Gente che, a dispetto dell’emarginazione, del disprezzo sociale e dell’impopolarità che ne deriva, non dimentica mai l’importanza di ascoltare le cose col cuore. Gente che non riesce ad adeguarsi alle regole del predominio, che non sa approfittare dell’ingenuità, che non possiede la prontezza e la malizia per prevenire l’astuzia dei furbi. Portatori di un sapere che non piace, non perdono di vista l’importanza di ciò che non ha forma e non si può toccare. Sono queste le persone che possiedono una personalità creativa. Persone ingiustamente ridicolizzate e incomprese in un mondo malato di arroganza, e che, spesso, si rivolgono agli psicologi  chiedendo aiuto. Ognuno di loro è orientato verso scelte diverse da quelle di sempre. E in genere hanno valori e priorità incomprensibili per la maggioranza. Non seguono una religione, ma ascoltano con religiosa attenzione i dettami del proprio mondo interiore. Sanno scherzare, senza prendere in giro. Sono gente che non trascura il codice dei sentimenti. Gente che bazzica l’immateriale. Gente che paga sempre di persona il prezzo delle proprie scelte e preferisce perdere, per non prevaricare. Gente fatta così. Poco ipnotizzabile. Poco omologabile. Poco assoggettabile. Gente che non fa tendenza. Forse. Di certo, gente che preferisce sopportare il dolore piuttosto che barattare la dignità. Gente poco normale, di questi tempi. Gente con l’anima.

lunedì 7 maggio 2012

scale e intervalli per chi di musica non ne sa proprio nulla

Potete leggere la conferenza introduttiva al laboratorio su questa pagina e il riassunto dei contenuti del laboratorio, in particolare anche sulle scale e gli intervalli (dedicate a  fratellociccio e lucia), a questo link dell'Accademia dei Lincei
Chi di musica ne sa invece qualcosa, apprezzi lo sforzo di semplificazione e se vede il modo di migliorarlo me lo suggerisca, sarà molto apprezzato.

Nel prossimo post cambierò argomento, ho voglia di Parole.

domenica 26 febbraio 2012

il ramo musicale del laboratorio


Il laboratorio*, svolto in una scuola, può essere tenuto dal solo insegnante di matematica - versione corta - con sporadiche apparizioni in classe dell’insegnante di musica. In questo caso il docente di musica, al pianoforte, presenta esempi di intervalli suonando due note insieme o una dopo l’altra, o brani interi, aiutando la lezione e la presentazione del collega di matematica. Caso diverso è quello in cui – versione lunga – entrambi i docenti svolgono un programma parallelo, nel quale, dopo la presentazione della musica come linguaggio delle emozioni e degli intervalli musicali  come strumenti di questa comunicazione emotiva, il docente di matematica si rivolge ai rapporti, alle proporzioni, alle frazioni, ecc…, applicandoli agli intervalli musicali, mentre il docente di musica, separatamente,  addestra  gli studenti ed eseguire brani vocali e strumentali che formino un percorso tra emozioni diverse comunicate attraverso una giusta composizione  musicale.
In Certosa abbiamo seguito la seconda strada, ma io ero attiva in entrambi i rami del laboratorio, affiancata egregiamente da due esperti** nel campo musicale che hanno addestrato il gruppo di studenti. Il mio apporto è stato, oltre la presenza e la partecipazione attiva, quello di ideare il percorso vocale e recitativo da proporre agli studenti. Recitativo, si, perché fare musica è anche recitazione e narrazione delle emozioni che si cantano. Era ben presente questo quando, parlando di opera, si diceva "il recitar cantando", ma oggi questo senso profondo non mi sembra rimasto nella coscienza collettiva.

A dopo, ché oggi è domenica e io son donna. i fornelli mi aspettano. E lo dico con piacere perché sono libera di sceglierli, i fornelli, se volessi continuare a scrivere potrei farlo, in casa si attiverebbe subito un uomo al mio posto. Ma per me la cucina è una attività di gruppo come la musica e l'insegnamento e mi attrae. Che ce posso fà?
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* vedi post precedenti 
**Andrea e Bruce Borrini, dell'Associazione  Culturale (no profit) Res alla  quale appartengo anch'io, rispettivamente figlio e marito, che hanno  prestato la loro opera nell'avventura, in qualità di volontariato.

venerdì 24 febbraio 2012

se questi video vi sembrano solo canzoni allora avete un problema






Dopo un lungo Prologo* informativo avevo promesso di postare i video presentati agli studenti in apertura di laboratorio, e lo faccio.
In Certosa, prima della proiezione,  ho spiegato, adattandolo all'età media degli ascoltatori - 12 anni - il contenuto del prologo. Hanno incredibilmente capito subito, e anche si sono incuriositi. 

Di seguito ho fatto vedere, come esempio di comunicazione di stati emotivi, i seguenti video (prima di caricarli è meglio finire di leggere):


1 - Simone Kermes, Dopo un'orrida procella, Griselda, Vivaldi 
2 - Cecilia Bartoli, Agitata da due venti, Griselda, Vivaldi
3 - Haka Maori
4 - Sefyu
5 -  Wazimbo, Nwahlwana


In realtà i video era di più, ma questi sono rappresentativi del discorso. Dico subito che avevo paura di rovinare tutto presentando all'inizio brani di lirica a dodicenni che avevano pratica - salvo 4 eccezioni - solo di Lady Gaga, ma la scelta ha funzionato!
Ho chiesto di prestare attenzione alla mimica facciale, al muoversi del corpo, agli occhi dei cantanti, ai salti delle note della melodia (gli intervalli), cioè alla vicinanza tra loro delle note cantate (per esempio do-re nella stessa ottava, oppure do-re con il do in una ottava e il re nell'ottava successiva) e di dirmi, alla  fine di ogni brano, che emozioni avevano provato.
I dodicenni hanno ascoltato con grande reazione, li guardavo in volto mentre passavano i suoni e le immagini, per molti di loro parlava il muoversi delle sopracciglia e il contrarsi o distendersi della loro bocca.

Qua di seguito metto il freddo elenco delle caratteristiche dei video e l'emozione rappresentata

1 - Simone Kermes:  L'AGITAZIONE
Dopo un’orrida procella
splende chiaro il ciel sereno 
che disgombra il nostro seno
 
dell'affanno, e del timor.
Così suole la fortuna
ristorare i danni suoi
vicendevoli con noi
alternando il suo rigor.

- Nonostante la serenità del testo, la musica esprime la grande agitazione lasciata nella persona dalla terribile esperienza appena passata (la procella). Le note della melodia si susseguono l’una all’altra con grandi intervalli tra loro, saltando su e giù di un’ottava e anche più.
- l’affanno viene sottolineato con un lungo vocalizzo  
- nella seconda ripetizione si levano alte le grida agitate del ricordo.
- nella terza ripetizione si cerca di mettere un po’ di leggerezza nell’esposizione del pensiero, ma senza successo, l’adrenalina riprende il sopravvento.
- durante tutta l’aria il corpo, gli occhi, gli arti, esprimono le emozioni del canto.

2 - Cecilia Bartoli: LA PAURA
Agitata da due venti, 
freme l'onda in mar turbato 
e 'l nocchiero spaventato 
già s'aspetta a naufragar. 
Dal dovere da l'amore 
combattuto questo core 
non resiste e par che ceda 
e incominci a desperar.

 Si ritrova l’agitazione, ma stavolta in una situazione che si sta vivendo, non ricordando, quindi con il colore della paura.  Gli intervalli tra le note sono meno grandi, devono esprimere il lamento, la paura e la sua paralisi, le alte grida della disperazione e del terrore, il singhiozzo del pianto e di nuovo il sussurro paralizzato del “oh Dio, oh Dio…”.
Anche in questo caso, come in tutti gli altri, ha molta importanza l’osservazione della mimica del soprano, gli occhi sbarrati, la paralisi improvvisa, ecc….

3- Haka Maori: LA POTENZA, IL CORAGGIO, LA MINACCIA 
Lo Haka Maori è una danza che esprime il sentimento interiore di chi la esegue, e può avere molteplici significati. È comunque un rituale che cerca di impressionare: si roteano e si spalancano gli occhi, si digrignano i denti, si mostra la lingua, ci si batte violentemente il petto e gli avambracci, si dà quindi un saggio di potenza e coraggio, che si ricollega allo spirito guerriero dei Maori. 
Gli intervalli musicali sono contenuti, manifestano insieme al ritmo controllo e coraggio. Si trova  anche qua l’ “ah” ricorrente della  paura, ma questa volta il controllo col quale è espresso lo rende un grido di di potenza.

4 - Sefyu: ATTEGGIAMENTI ARCAICI E GRUPPI MODERNI
Il video mostra un gruppo urbano di giovani, una banda metropolitana, che si muove accompagnata da  un brano rap.
È  interessante individuare e cogliere le somiglianze espressive con la danza haka mostrata nella diapositiva precedente. Si sottolinea in  particolare il grido “ah!” di potenza ritmato e ripetuto e i movimenti del corpo e degli arti del gruppo di  giovani.

5 - Wazimbo: AMORE GENITORIALE   E  RESPONSABILITÀ      SOCIALE
In questo ultimo brano musicale, moderno, un padre chiede ai “Signori della guerra”  di riavere indietro la piccola figlia Maria, scappata dal paese insieme alla madre per sottrarsi al massacro della guerra, e poi, dopo la morte della madre,  persa all'estero.
Si sottolinea il tracciato melodico e gli intervalli usati  per esprimere l’intensità degli affetti che muovono i gesti: l'amore, il senso di responsabilità sociale, il rifiuto della violenza, insieme alla mimica e alla voce del cantante, così diversi da ognuno dei video già presentati.
Mah, lo dicevo io che era un’impresa difficile. Però se qualcuno ha osservazione o commenti da fare li butti pure lì…
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* vedi post precedente